Nel settembre scorso ci aveva pensato il Presidente degli Stati Uniti, James Biden, a tirare un sasso nello stagno nel dibattito, ormai globale, riguardante il necessario ripensamento di molte delle questioni che direttamente o indirettamene insistono sulla complessa materia dell’organizzazione del Lavoro.
Nello specifico Biden suggeriva agli imprenditori, in modo chiaro ed esplicito, come superare le difficoltà da carenza di personale, fattore che sta rallentando la ripresa economica statunitense dopo la battuta d’arresto subita a causa dell’emergenza covid.
Quello del salario è un tema che il Presidente aveva già affrontato nel maggio precedente, parlando della necessità della crescita dei salari post pandemia: ”I datori di lavoro dovranno competere e iniziare a pagare un salario dignitoso alle persone che lavorano duramente”.
Ma il tema del lavoro è più ampio e più complesso per limitarlo alla semplice dinamica salariale.
Nell’ultimo anno, infatti, quello che si sta manifestando sempre più è il burnout lavorativo: il licenziamento volontario.
Nei soli Usa dalla scorsa primavera lo US Bureau of Labor Statistic ha quantificato in circa venti milioni coloro che hanno volontariamente rinunciato ad un impiego (4.4 mln nel solo mese di settembre – https://www.bls.gov/news.release/jolts.t04.htm).
L’ex Segretario di Stato al Lavoro durante la presidenza Clinton, Robert Reich, in proposito ha osservato che “si potrebbe dire che i lavoratori hanno dichiarato uno sciopero generale nazionale finché non otterranno una paga migliore e migliori condizioni di lavoro”, a differenza della lettura fornita da chi definisce il fenomeno come “labour shortage” (carenza di manodopera), imputando la causa ai sussidi di stato diffusi durante la fase più acuta della pandemia.
E in Italia?
Nel secondo trimestre del 2021 ci sono state, secondo la nota trimestrale del Ministero del Lavoro, 485mila dimissioni volontarie, con un aumento dell’85% rispetto al 2020. Segnale che il fenomeno inizia a prendere piede anche nel nostro paese, unico paese della UE in cui, giova ricordarlo (fonte OCSE: https://data.oecd.org/earnwage/average-wages.htm#indicator-chart), negli ultimi trenta anni i salari sono diminuiti anziché aumentare. Una flessione del 2,9%, a differenza di Francia e Germania dove l’aumento dei salari si attesta intorno al 30%.
Ma come nel caso degli Stati Uniti la questione salariale, benché abbia radici antiche, non è l’unico fattore scatenante.
Parafrasando il Marchese Antonio De Curtis infatti, è sempre la somma che fa il totale.
E gli addendi si possono identificare uno a uno nella sempre più manifesta degenerazione del fordismo, unico modello seguito, e mai superato nei fatti, in quanto ad organizzazione del lavoro.
Sovraccarico di mansioni, stipendi bassi, scarsa autonomia, impossibilità a conciliare valori personali e obiettivi aziendali in una dimensione in cui nessun’altra prospettiva sembra esserci se non quella di scaricare sul Personale ogni necessità imposta dall’evolversi dei tempi.
E’ questa somma di fattori che sta portando al burnout lavorativo.
Se le meravigliose sorti e progressive del PNRR non verranno accompagnate da profondi ripensamenti del modello di sviluppo e dell’organizzazione dei processi produttivi, il numero di coloro che sceglierà di andarsene sarà inevitabilmente destinato a crescere.
Tommaso A. Niello