L’ovattato racconto che da sempre caratterizza il periodo delle festività natalizie da un paio d’anni è purtroppo condizionato dalla triste presenza del malaugurato virus Covid19. Certamente la campagna vaccinale quest’anno ha permesso di mitigare le misure di contenimento, anche se la variante Omicron col suo alto tasso di contagiosità impone ancora una volta la massima responsabilità, personale e collettiva, nei comportamenti quotidiani.
Una responsabilità a cui ormai siamo abituati, ma che contribuisce ad aumentare paure, diffidenze e sfiducia.
L’azione del virus, apparso in quest’epoca di transizione, ha mostrato senza compassione tutti i punti di fragilità dei modelli sociali e delle architetture dei sistemi economici, scelte strutturali che per anni sono sembrate essere incrollabili, ma che celavano al loro interno debolezze profonde. Un complesso di situazioni che nella alterata prospettiva antecedente alla comparsa del virus, permetteva di sospendere ansie e preoccupazioni, per chi poteva farlo, almeno durante le feste natalizie. L’azione destrutturante, in atto da tempo, con la pandemia si è solo manifestata in tutta la sua portata.
L’economia di produzione, alla base del progresso e dei tassi di crescita imponenti del secondo dopo guerra sta vivendo da anni il suo crepuscolo, un processo certamente accresciuto dalla sempre più ampia rilevanza assunta dalla finanziarizzazione dei processi economici. A partire dagli anni ottanta, la deregolamentazione, la creazione e diffusione di strumenti finanziari oltremodo strutturati e complessi, in un regime di mercato globale e sempre più connesso, ha determinato sostanzialmente due effetti: l’aumento delle disparità e l’indebolimento di tutto il sistema economico.
E’ abbastanza chiaro che i modelli economici tradizionali, già di fatto smentiti con l’avvento della globalizzazione, alla cui base sussiste l’incontro di due utilità, quella dei consumatori e quella dei produttori, non sono più in grado di delineare i confini entro cui, almeno in linea teorica, sia possibile il raggiungimento dell’equilibrio economico generale. La massimizzazione dell’utilità dei consumatori, attraverso la domanda di beni e servizi sostenuta dall’aumento delle disponibilità monetarie, si scontra con la compressione dei redditi. Così come dal lato del mercato, l’utilità dei produttori, che sussiste nella massimizzazione del profitto a fronte di un progressivo contenimento dei costi, si scontra con sempre più profondi limiti strutturali che alla lunga impediscono lo stesso profitto.
La somma di interessi egoistici da una parte e dall’altra, non è più sufficiente (e forse non lo è mai stata) per il raggiungimento del benessere per la collettività attraverso il principio della concorrenza sui mercati (la cosiddetta mano invisibile). L’assunto secondo cui l’operaio della Ford, col suo salario, poteva acquistare esso stesso la macchina che produceva, è venuto meno, così come il piccolo imprenditore non può competere con i giganti che hanno di fatto costruito monopoli di mercato difficilmente correggibili.
Ciò che si dipana nelle sottotrame di una società sempre più complessa è innanzi tutto che troppo frettolosamente nel passato, più o meno all’indomani dell’affermarsi del modello unico, si è scelto di limitare sempre di più il ruolo dello Stato. Per quanto attiene alla salute, per esempio, il Covid, ha dimostrato plasticamente che quelle economie che hanno evitato una privatizzazione selvaggia delle politiche di gestione della Sanità hanno garantito meglio quello che è –o dovrebbe essere– un diritto universale. Esempio, come istruzione, conoscenza e sicurezza, di quei beni pubblici che il mercato non ha interesse a produrre in modo ottimale e che invece debitamente sviluppati, determinano il benessere sociale e collettivo.
Uno Stato che, quando deve scontrarsi con determinati totem dell’economia, non sempre riesce a svolgere quel ruolo perequativo che è garanzia stessa del mantenimento del patto sociale. Come nel caso della sostanziale assenza di limiti legislativi che impediscano politiche di delocalizzazione della produzione, o come nel caso delle aziende che gestiscono le consegne a domicilio che ostinatamente continuano a voler considerare i Rider, gli antichi fattorini, come lavoratori autonomi, per il solo fatto di possedere una partita Iva, alla stregua di un avvocato, un medico o un ingegnere. Casi in cui gli scenari ipotizzati secondo il modello di equilibrio economico tradizionale appaiono già superati dalla realtà dei fatti.
Uno stato delle cose che, in era Covid, ha scomposto anche la classica concezione relativa al mondo delle professioni, che non è più quella elitaria, bensì quella di persone in cerca di una occupazione qualificata da conquistare nel mercato dei servizi professionali, una realtà sempre più complessa che li espone, dopo anni di studio, tirocini e collaborazioni a una vera e propria lotta per la sopravvivenza. Un mutamento che ha avvicinato il mondo del lavoro autonomo a quello del lavoro dipendente, nelle dinamiche e nei mutamenti sempre più protesi ad un’incertezza più accentuata per le giovani generazioni.
Le contraddizioni di sistema emerse con violenza durante la pandemia hanno fatto emergere l’esigenza di elaborare un nuovo modello economico generale, capace di progettare nuove reti sociali, a partire proprio dal lavoro, tali da disinnescare i rischi di una società post covid ancora più divisa, individualista e in cui la forbice delle disuguaglianze si allarghi ulteriormente includendo anche ceti, categorie e professioni un tempo al sicuro.
In un dibattito democratico che permetta il superamento dell’eterna emergenza che comprime gli spazi di confronto, in cui la politica dimostri di essere capace di tornare ad esercitare la funzione che le è propria, in un mondo nuovo in cui per dirla come Galileo Galilei chi si vuole assumere le responsabilità di governo e di guida sia in grado di misurare ciò che è misurabile, e rendere misurabile ciò che non lo è. Nell’interesse collettivo e non più nell’affermazione dell’individuo fine a se stessa.
Arturo Bandini